sabato 26 novembre 2011
L'ultima ossessione, gli anelli in vetro
Come chi mi segue su facebook avrà avuto modo di vedere, da qualche tempo mi cimento nella costruzione di anelli in vetro. Sottolineo la parola costruzione, perché la procedura per fare gli anelli si discosta parecchio della classica maniera di fare le perle a lume. Si sa che le variabili da controllare quando si lavora il vetro incandescente con la fiamma di un cannello sono principalmente due, temperatura e gravità, e che controllando queste il vetro caldo tende spontaneamente alla rotondità. Ora invece per fare gli anelli su un ago di grosso diametro (in realtà un cilindretto metallico in fondo a un ago grosso) queste regole vengono infrante perché, dopo aver fatto la base dell'anello non si cerca la rotondità, si cerca invece di costruire una superficie ovale regolare che possa ospitare la decorazione. Questo effetto si ottiene posizionando gocce di vetro e spostandole poi con qualche attrezzo fino a trovare la forma desiderata. Molto più semplice a dirsi che a farsi.
Una volta costruita la tavolozza il trucco sta nell'applicare la decorazione senza far raffreddare né riscaldare bruscamente tutto l'anello. Spesso quando ci si dilunga troppo si finisce col sentire un piccolo "crack", l'indizio di una frattura che va sanata immediatamente per quanto possibile, scaldando il punto fino a fonderlo completamente.
Il più delle volte però non vale la pena di continuare a questo punto, perché non sempre la frattura guarisce fino in fondo e perché l'anello a quel punto si deforma irreversibilmente. Almeno io a quel punto preferisco buttare via il tentativo. Magari altri sanno come rimediare, ma qui io sono purtroppo completamente autodidatta e questo problema non l'ho risolto. Corina Tettinger fa degli anelli bellissimi ed ha annunciato un tutorial che ancora non ha visto la luce. Fino ad allora, non mi resta che continuare a fare tentativi.
L'ago su cui viene colato il vetro ha un'importanza notevole. Ce ne sono di due tipi diversi: massicci e cavi. Quelli massicci sono più pesanti e faticosi da usare, e proprio perché sono pesanti sono solitamente più corti di quelli cavi, che consentono invece di fare anelli più grandi e importanti. Quelli cavi sono quelli venduti negli UK da Tuffnell e sono i miei preferiti.
Mi sarebbe piaciuto molto favi vedere qualche anello indossato ma purtroppo, si sa, le ceramiste non hanno mani da modella.
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Corina Tettinger
lunedì 21 novembre 2011
Le tazze a tre piedi modello Pierantozzi
Ovvero cosa succede quando ci si prova a seguire le istruzioni del DVD "What if? Explorations with Texture and Soft Slabs" di Sandi Pierantozzi. Ogni anno all'appuntamento di Scomigo cerco di presentare qualcosa di nuovo. L'anno scorso avevo costruito delle scatole texturate in refrattario. Quest'anno - non avendo avuto altre idee brillanti - ho deciso di provare a costruire delle tazze con il metodo di Sandi Pierantozzi di cui ho già riferito. Ho portato della terra rossa piuttosto umida, una serie di timbri a rullo da me creati e un paio di rettangoli di cartoncino da usare come dime per le lastre e ho cercato di costruire delle tazze.
Modello Giuditta n.1
Il primo tentativo è stato piuttosto deludente. Prevedendo di dover espandere il volume dall'interno ho usato uno spessore di lastra eccessivo (8mm) e il tazzone è diventato pesantissimo e troppo grande. Il manico poi, rullato e inciso è decisamente eccessivo. Una tazza per pesi massimi.
Modello Giuditta n. 2
Già più proporzionata. Ho usato lastra meno lunga e di spessore ridotto, cioè un diametro minore, ma il manico è ancora eccessivo.
Modello Giuditta n 3
Più piccola, ma proprio con il manico non ci siamo. Soprattutto quando provo ad attaccarlo non in corrispondenza del piede ma tra due piedi, cosa che comporta un equilibrio precario e un problema statico. La tazza tende a sbandare per il peso del manico, che si appoggia ed evita che cada del tutto, ma immaginate che fine farebbe il liquido contenuto nella sbandata... Bocciata.
Modello Giuditta n 4
Non male come forma, anche se un po' storta.
I manici rullati di Sandi non vanno bene per me.
Poi però mi viene in mente che questi manici sono presentati come una scorciatoia per chi non li sa fare tirati. Considerando che io ci ho impiegato anni a imparare a fare i manici tirati, mi è sembrato il caso di tentare a incrociare le due tecniche. Quindi, questo l'ho tirato, poi arricciato e attaccato... tra due piedi... Anche questo perciò è ribaltabile, staticamente controverso.
Modello Giuditta n 5: punto di arrivo
Ecco che quindi arriviamo alla soluzione del problema, per approssimazioni successive (o come rende meglio in inglese "by trial and error").
Manico tirato e modificato, attaccato alla base del piede, dove però va modellato per accompagnare la forma.
Soddisfatta del risultato al punto tentare la possibilità di riprodurne un'altra uguale. Risultato: una coppia di tazze da caffè.
Morale della favola
Quando si implementano le tecniche altrui non è sempre una passeggiata. Data la quantità di variabili in gioco - tipo di terra, spessore della lastra, profondità del disegno in rilievo e conseguente possibilità di espandere dall'interno, forma e attacco del manico - anche le tecniche che sembrano più ovvie possono presentare delle complessità. E poi è sempre così quando l'insegnante è così bravo da fare sembrare tutto semplice. E' al momento di mettere in pratica gli insegnamenti che saltano fuori le difficoltà.
La strada indicata da Sandi non è proprio congegnale per me, ma ci ricavo comunque un paio di spunti da utilizzare a modo mio: 1. la possibilità di costruire volumi con forme magari non ricavate a lastra ma a tornio 2. La possibilità di modificare i volumi dall'interno per non intaccare il disegno della superficie. 3. Più in generale, la possibilità di prendere spunto da tecniche non necessariamente affini alla mia produzione, spostandole in ambiti diversi. Non è poi questa la differenza tra copiare e interpretare??
Modello Giuditta n.1
Il primo tentativo è stato piuttosto deludente. Prevedendo di dover espandere il volume dall'interno ho usato uno spessore di lastra eccessivo (8mm) e il tazzone è diventato pesantissimo e troppo grande. Il manico poi, rullato e inciso è decisamente eccessivo. Una tazza per pesi massimi.
Modello Giuditta n. 2
Già più proporzionata. Ho usato lastra meno lunga e di spessore ridotto, cioè un diametro minore, ma il manico è ancora eccessivo.
Modello Giuditta n 3
Più piccola, ma proprio con il manico non ci siamo. Soprattutto quando provo ad attaccarlo non in corrispondenza del piede ma tra due piedi, cosa che comporta un equilibrio precario e un problema statico. La tazza tende a sbandare per il peso del manico, che si appoggia ed evita che cada del tutto, ma immaginate che fine farebbe il liquido contenuto nella sbandata... Bocciata.
Modello Giuditta n 4
Non male come forma, anche se un po' storta.
I manici rullati di Sandi non vanno bene per me.
Poi però mi viene in mente che questi manici sono presentati come una scorciatoia per chi non li sa fare tirati. Considerando che io ci ho impiegato anni a imparare a fare i manici tirati, mi è sembrato il caso di tentare a incrociare le due tecniche. Quindi, questo l'ho tirato, poi arricciato e attaccato... tra due piedi... Anche questo perciò è ribaltabile, staticamente controverso.
Modello Giuditta n 5: punto di arrivo
Ecco che quindi arriviamo alla soluzione del problema, per approssimazioni successive (o come rende meglio in inglese "by trial and error").
Manico tirato e modificato, attaccato alla base del piede, dove però va modellato per accompagnare la forma.
Soddisfatta del risultato al punto tentare la possibilità di riprodurne un'altra uguale. Risultato: una coppia di tazze da caffè.
Morale della favola
Quando si implementano le tecniche altrui non è sempre una passeggiata. Data la quantità di variabili in gioco - tipo di terra, spessore della lastra, profondità del disegno in rilievo e conseguente possibilità di espandere dall'interno, forma e attacco del manico - anche le tecniche che sembrano più ovvie possono presentare delle complessità. E poi è sempre così quando l'insegnante è così bravo da fare sembrare tutto semplice. E' al momento di mettere in pratica gli insegnamenti che saltano fuori le difficoltà.
La strada indicata da Sandi non è proprio congegnale per me, ma ci ricavo comunque un paio di spunti da utilizzare a modo mio: 1. la possibilità di costruire volumi con forme magari non ricavate a lastra ma a tornio 2. La possibilità di modificare i volumi dall'interno per non intaccare il disegno della superficie. 3. Più in generale, la possibilità di prendere spunto da tecniche non necessariamente affini alla mia produzione, spostandole in ambiti diversi. Non è poi questa la differenza tra copiare e interpretare??
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sabato 5 novembre 2011
What if? La costruzione a mano di Sandi Pierantozzi
What if? Explorations with Texture and Soft Slabs è il titolo del DVD, per la verità un cofanetto di due DVD, di Sandi Pierantozzi. Conoscevo già l'estroso lavoro di Sandi, presentato in una quantità di testi sacri della ceramica, specialmente in quelli specializzati nella lavorazione manuale, ovvero "Handbuilding".
Ossessionata dal tornio come sono, mi aveva molto incuriosito l'entusiasmo per Sandi dei ceramisti conosciuti due anni fa a San Diego, California. Alcuni di loro di fatto avevano messo da parte il tornio per sperimentare con le lastre, dopo aver seguito un seminario tenuto da lei presso la Clay Artists of San Diego. Sandi lavora con l'argilla allo stadio morbido, imprimendo forme con stampi di recupero, stampi commerciali ed altri autocostruiti.
Di stampi commerciali ce ne sono in grande quantità, ma tutto sommato sono poco interessanti, non mi piace l'idea di ritrovare i motivi della mia ceramica nel lavoro altrui. Quelli di recupero sono reti, corde, tappetini, cartoncini in rilievo e qualsiasi cosa imprima una traccia sufficientemente definita , con l'accorgimento - quando si usano stampi in plastica - di cospargere la superficie della lastra con dell'amido di mais perché non ci si incollino. A me però interessano molto di più gli stampi autocostruiti perché possono personalizzare ulteriormente l'oggetto fatto a mano, ma questo capitolo ha bisogno di uno sviluppo troppo complesso per questo post: ne riferirò in altra occasione.
A partire dalla lastra morbida impressa Sandi costruisce volumi, cilindri e coni prevalentemente con l'aiuto di modelli in cartoncino che si ricavano con semplicità. Questi volumi vengono poi deformati ed espansi dall'interno per ottenere forme più belle senza sbavare il rilievo. Questi volumi di base possono essere poi combinati per ricavare oggetti complessi, vasi, teiere, ciotole.
Il percorso con cui Sandi accompagna l'allievo alla scoperta del suo metodo è estremamente comprensibile (ovviamente per chi capisce l'inglese) e lungo la strada vengono condivisi molti piccoli segreti del mestiere, come quello dell'amido di mais di cui sopra per esempio.
Ad ogni passo Sandi opera delle scelte di gusto e di metodo, sempre sottolineando che vale la pena di chiedersi "What if???": Cosa succederebbe se si decidesse di fare diversamente? Non c'è un modo giusto e un modo sbagliato di fare le cose, purché funzioni.
Le opere di Sandi in bassa temperatura sono buffe e a momenti barocche, e rivelano chiaramente quanto lei ci si diverta a crearle. Un altro motivo per cui Sandi Pierantozzi mi sta simpatica: anche lei fa le perle a lume!!!!!!!!!!
Ossessionata dal tornio come sono, mi aveva molto incuriosito l'entusiasmo per Sandi dei ceramisti conosciuti due anni fa a San Diego, California. Alcuni di loro di fatto avevano messo da parte il tornio per sperimentare con le lastre, dopo aver seguito un seminario tenuto da lei presso la Clay Artists of San Diego. Sandi lavora con l'argilla allo stadio morbido, imprimendo forme con stampi di recupero, stampi commerciali ed altri autocostruiti.
Di stampi commerciali ce ne sono in grande quantità, ma tutto sommato sono poco interessanti, non mi piace l'idea di ritrovare i motivi della mia ceramica nel lavoro altrui. Quelli di recupero sono reti, corde, tappetini, cartoncini in rilievo e qualsiasi cosa imprima una traccia sufficientemente definita , con l'accorgimento - quando si usano stampi in plastica - di cospargere la superficie della lastra con dell'amido di mais perché non ci si incollino. A me però interessano molto di più gli stampi autocostruiti perché possono personalizzare ulteriormente l'oggetto fatto a mano, ma questo capitolo ha bisogno di uno sviluppo troppo complesso per questo post: ne riferirò in altra occasione.
Il percorso con cui Sandi accompagna l'allievo alla scoperta del suo metodo è estremamente comprensibile (ovviamente per chi capisce l'inglese) e lungo la strada vengono condivisi molti piccoli segreti del mestiere, come quello dell'amido di mais di cui sopra per esempio.
Ad ogni passo Sandi opera delle scelte di gusto e di metodo, sempre sottolineando che vale la pena di chiedersi "What if???": Cosa succederebbe se si decidesse di fare diversamente? Non c'è un modo giusto e un modo sbagliato di fare le cose, purché funzioni.
Le opere di Sandi in bassa temperatura sono buffe e a momenti barocche, e rivelano chiaramente quanto lei ci si diverta a crearle. Un altro motivo per cui Sandi Pierantozzi mi sta simpatica: anche lei fa le perle a lume!!!!!!!!!!
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